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Professione Diversity Manager. Sfida - e business - del futuro

Federico Francini

Country Manager - Italy

Nell’era della Quarta Rivoluzione Industriale e della trasformazione digitale, il mondo del lavoro cambia e le aziende si interrogano: come fare business in un ambiente in continua evoluzione, dove etnie, religioni e orientamenti sessuali si mescolano e si influenzano a vicenda? La diversità è un fatto e, come ormai accade nel resto d’Europa, anche in Italia le aziende cominciano a capire che, per trasformare un potenziale elemento di instabilità in impatto positivo sui risultati di business, la via da seguire è la valorizzazione delle differenze e la creazione di inclusione.

Noi in Cornerstone OnDemand abbiamo intrapreso questo percorso ormai da tempo e siamo da sempre particolarmente attenti a questi temi, come dimostra l’inserimento del nostro CEO Adam Miller nella lista dei 50 CEO più orientati alla diversity in azienda stilata da Comparably (sito americano di monitoraggio dei principali trend in tema di compensation, cultura aziendale e carriere).

Del resto anche in Italia i numeri parlano chiaro: recenti ricerche dimostrano che le aziende percepite come inclusive registrano un aumento dei ricavi del 16,7% e che ben l’80% degli italiani preferisce i brand più inclusivi rispetto a etnia, orientamento sessuale, età, genere, abilità fisiche. Non è un caso infatti che aziende di alto profilo come Facebook, Google o Uber vantino al proprio interno figure specializzate addette alla diversità che si occupano di esaminare in modo approfondito in che modo l’azienda assume, promuove e accoglie collaboratori di ogni provenienza ed estrazione.

Così, accanto alla neonata figura del manager della felicità, si fa strada un altro ruolo che aziende, dipendenti e professionisti affermati stanno abbracciando con altrettanto entusiasmo fino a incentrarvi interi percorsi di carriera. In Italia se ne parla da pochi anni, ma in Europa il Diversity Manager è ormai da tempo realtà.

Diversity Manager cercasi: lo dicono i dati
Se vi state chiedendo perché mai un’azienda in Italia dovrebbe preoccuparsi di avere al proprio interno una figura specializzata che si occupi di diversità e inclusione, i dati qui di seguito potrebbero essere una buona risposta:

  • 82: il posto dell’Italia nella classifica del gender gap stilata dal World Economic Forum 2017. Su un totale di 144 Paesi l’Italia ha ancora tanto su cui lavorare sul fronte del divario tra uomini e donne a vari livelli, dal lavoro all’istruzione;
  • 10,9%: il valore del gender gap, la differenza di stipendio a favore degli uomini rispetto alle donne, a parità di lavoro (fonte: Diversity Brand Summit)
  • 4,8 milioni: i disabili in Italia nel 2020 (Censis)
  • 5 milioni: gli stranieri in Italia (Istat 2018)
  • 1 milione: le persone Lgbt in Italia (Istat 2012)

Ma chi è il Diversity Manager e in cosa consiste il suo ruolo?

Come per ogni nuova professione, la terminologia è varia: si parla di manager della diversità, direttore della diversità e dell’inclusione, responsabile della parità o ancora di responsabile della diversità, inclusione e appartenenza. Ma ciò su cui le organizzazioni sono d’accordo è che questa nuova figura è talmente preziosa per i propri dipendenti che merita un'intera posizione o, a volte, un’intera divisione dedicata. A conferma di questo trend, i dati dei principali portali per la ricerca di lavoro sottolineano un significativo incremento della richiesta di ruoli simili: tra il 2017 e il 2018, i post di Indeed per le posizioni legate alla gestione della diversity sono aumentati di quasi il 20%.

Essendo però una figura relativamente recente nel mercato del lavoro, ancora non esiste un inquadramento preciso. In genere, si tratta di una persona che già ricopre un altro ruolo in azienda, solitamente in ambito risorse umane o responsabilità sociale, alla quale è affidato anche l’incarico di valorizzare le diversità presenti in azienda.

In generale, i ruoli che hanno a che fare con la gestione della diversità richiedono esperienza in tre aree importanti: assunzione, fidelizzazione e coinvolgimento dei dipendenti. Del resto, diversità e inclusione vanno di pari passo ed è per questo che, nel diversificare la forza lavoro dell'azienda, i manager devono anche assicurarsi che i dipendenti di gruppi sottorappresentati si sentano i benvenuti.

Inoltre, concentrarsi sulla diversità e l'inclusione non è solo una buona pratica a livello di reputazione ed employer branding; è un investimento per il successo dell'azienda. Una serie di studi ha infatti dimostrato come la diversità faccia bene anche al bilancio aziendale. Investire nella diversity significa preoccuparsi ancora di più della propria forza lavoro. Le aziende che si dimostrano sensibili in quest’ambito si stanno senz’altro muovendo nella giusta direzione: non solo rendono felici i propri collaboratori a fine giornata preoccupandosi dei loro diritti e del loro benessere, ma li fidelizzano, aumentandone la retention a lungo termine perché, come abbiamo visto più volte, i dipendenti soddisfatti sono anche i più propensi a restare in azienda.

L’inclusione risulta dunque sempre più decisiva per il successo delle aziende e c’è chi ci crede così tanto da seguire una vera e propria politica di diversity su più fronti con iniziative che spaziano dal sostegno alla leadership femminile alla parità di diritti per le coppie omosessuali (ad esempio, riconoscendo loro il classico congedo matrimoniale) fino all’ageing (l’inclusione dei lavoratori over 45). E se in passato molte aziende facevano comune affidamento su dipendenti appartenenti a gruppi sottorappresentati per stimolare il cambiamento al proprio interno partendo dal basso, ora la strategia si è capovolta. Il lavoro dell’emergente figura del Diversity Manager è focalizzato sull'ascolto di quei dipendenti, al fine di raccoglierne problematiche, punti di vista e suggerimenti utili a implementare politiche capaci di supportare dall’alto la diversità e l’inclusione.

In Italia i buoni esempi non mancano: la partecipazione e il coinvolgimento al tema della diversità spesso travalica i confini aziendali, come testimonia il caso di una delle tante aziende certificate Top Employers 2018. Da oltre un anno in Tim è attiva infatti la TIM4inclusion community, una community di oltre 400 colleghi che hanno dato la loro disponibilità per ideare progetti di inclusione. La community non si occupa di una categoria specifica di persone con necessità di inclusione, ma lavora su tutti i processi aziendali, verificando se e dove siano presenti ancora luoghi (fisici o organizzativi), da rendere più facilmente inclusivi. I partecipanti alla community rappresentano tutta l’azienda, per collocazione geografica, qualifica professionale, composizione socio-demografica. I risultati del primo anno di lavoro hanno superato le aspettative e hanno visto l’elaborazione e l’approvazione di 9 diversi progetti, molto diversificati tra loro, tutti nel segno dell’inclusione: dalla dislessia all’estensione del lavoro agile per categorie di dipendenti con necessità e bisogni particolari.

La diversità oggi è dunque un bene che va valorizzato e soprattutto, come ha dichiarato recentemente Mauro Meanti, vice presidente di Valore D, associazione di 150 aziende con la missione di promuovere e valorizzare il talento femminile nelle aziende, non si può pensare di organizzare la vita in azienda come 20 anni fa. Occorre, invece, considerare la persona nella propria unicità e nella propria capacità di contribuzione al mondo organizzativo in cui vive. E per fortuna le aziende cominciano a mostrarsi sempre più attente al valore della diversità, convinte che la scommessa del futuro sia sulle persone.

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